“Teste calde” all’opera

La nascita del movimento operaio in Italia

Abbiamo pubblicato sui numeri precedenti di Umanità Nova due brani di Max Nettlau: Il primo illustrava la polemica tra Giuseppe Mazzini e Michele Bakunin a proposito della Comune e dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori; il secondo rendeva conto del testo inviato da Bakunin ai suoi “amici d’Italia” a proposito del congresso operaio di Roma, testo utilizzato da questi amici, cioè dal gruppo dell’Alleanza che si muoveva all’interno della sezione di Napoli dell’Internazionale, come base per un documento presentato a quel Congresso.

Vorrei ora inquadrare storicamente questi eventi, che per me rappresentano la prima rottura fra le componenti operaie e la loro direzione borghese, in pratica l’atto di nascita del movimento operaio in Italia.

Con il compimento dell’unità nazionale e la fine del dominio temporale dei papi, la questione sociale, per usare la terminologia dell’epoca, viene posta all’ordine del giorno anche in Italia. In quegli anni (1870-1871) l’Italia era entrata pienamente all’interno dell’economia capitalistica europea e, anche se in in posizione di retroguardia, nel gruppo degli stati più avanzati dell’epoca.

Per capire in quali termini si pone tale atto di nascita è necessario chiarire che cosa significa movimento operaio e quali erano le basi sociali del movimento operaio in quegli anni.

Il concetto di movimento operaio si è perso oggi all’interno del dibattito politico, e questo già di per sé è un segno della debolezza attuale della della classe operaia. Il movimento operaio è costituito sostanzialmente dall’insieme di attivisti e di organismi politici, economici e culturali che lottano per l’emancipazione della classe operaia e l’abolizione della proprietà privata. Queste realtà si muovono con strategie talvolta diverse e persino contraddittorie, però comunque hanno la coscienza di avere come riferimento la stessa classe.

Per comprendere in quali termini, nei primi anni dopo l’unità d’Italia, è possibile parlare di movimento operaio bisogna liberarsi dalla visione novecentesca della classe operaia, legata alla grande industria, alla catena di montaggio, ad un certo modello produttivo. In realtà questo modello non esaurisce le forme in cui si presenta la classe operaia.

In quegli anni in Italia erano presenti nuclei storici della classe operaia estremamente limitati, basti pensare ai minatori, ai cavatori, ai lavoratori degli arsenali; esisteva comunque una vasta schiera di lavoratori salariati, di giornalieri, sia nelle città sia nelle campagne, che vivevano esclusivamente della vendita della propria forza-lavoro e svolgevano un lavoro manuale all’interno dei laboratori artigiani e delle prime manifatture. Esistevano altresì nuclei di classe operaia all’interno dei primi grandi stabilimenti, come ad esempio a Napoli. Si stava sviluppando una forte categoria che avrà un ruolo centrale all’interno delle lotte operaie dei decenni successivi, quella dei ferrovieri: in primo luogo gli operai delle officine, in secondo luogo i macchinisti e i fuochisti; queste sono le due categorie fondamentali che all’interno del settore ferroviario costituiranno i primi sindacati e i primi movimenti di lotta.

La classe operaia non solo esisteva; alla fine degli anni 60 dell’Ottocento la classe operaia dà i primi segni di vitalità. E di combattività, anche se ancora legata a temi essenzialmente economici. Numerosi sono gli scioperi e proprio nella primavera del 1869 a Bologna si svolge il primo sciopero generale cittadino.

Al di fuori di quello che possiamo chiamare movimento operaio, esisteva la grande maggioranza dei ceti popolari italiani, rappresentata dai contadini, in generale poveri anche se non immediatamente assimilabili alla classe operaia, a parte alcune zone e alcuni settori. Il movimento dei contadini sarà protagonista alla fine degli anni ‘60 di una grande rivolta, o meglio, di una serie di rivolte scoordinate, anche se diffuse in gran parte parte d’Italia, unite dallo stesso tema della ribellione contro le imposizioni del governo, dalla tassa sul macinato alla leva obbligatoria. Queste ribellioni si concluderanno con massacri da parte dei carabinieri e dell’esercito, con arresti e condanne; segnano però da un lato una volontà di lotta da parte delle masse contadine, dall’altro l’incapacità dei movimenti rivoluzionari dell’epoca di collegarsi a quel vastissimo movimento sociale.

La terza componente che, all’interno della situazione sociale italiana dell’epoca, rappresenta un potenziale rivoluzionario è costituita da giovani della borghesia, giovani istruiti che erano stati il nerbo delle spedizioni garibaldine, che avevano partecipato alle cospirazioni mazziniane, che sono ancora entusiasti dell’idea di unificazione nazionale, di libertà e di democrazia e che pensano che la Repubblica avrebbe risolto tutti i problemi creati dall’unificazione sotto casa Savoia. Questi giovani ebbero una profonda delusione quando Mazzini e gli altri capi del movimento repubblicano, convinti che la ribellione provocata da bisogni materiali non avrebbe portato alla rivoluzione, si rifiutarono di porsi alla testa delle rivolte contadine: sicuramente delle masse ignoranti come erano quelle dei contadini non sarebbero state in grado di dare vita alla repubblica in cui questi dirigenti aspiravano ad esercitare il potere.

Esiste dunque un forte malcontento sociale di cui la monarchia è perfettamente cosciente. E la monarchia è anche cosciente del fatto che all’indomani della guerra franco-prussiana ha perso uno dei principali puntelli, che era appunto Luigi Bonaparte, imperatore dei francesi. Per rafforzare il proprio prestigio, la monarchia italiana dà il via a due operazioni. La prima operazione è la presa di Roma effettuata di soppiatto, una volta che le truppe francesi erano state disastrosamente sconfitte a Sedan, e conclusasi dopo una resistenza poco più che simbolica delle truppe papaline. La seconda operazione è lasciar partire dall’Italia Garibaldi per difendere la repubblica francese; con Garibaldi se ne vanno via tante di quelle “teste calde” che avrebbero potuto alimentare una crisi rivoluzionaria in Italia, e vanno a combattere in Francia, riportandone una cocente delusione per il comportamento della Repubblica, che aveva più paura della rivolta proletaria che dei cannoni prussiani.

La spedizione di Garibaldi, al di là degli episodi militari e delle vittorie di cui fu protagonista, si concluse con un grosso insuccesso politico anche perché, se la monarchia italiana aveva tutto l’interesse ad utilizzare Garibaldi per allontanare i giovani rivoluzionari dall’Italia, allo stesso modo il governo francese aveva interesse ad utilizzare Garibaldi per spaventare le cancellerie europee e spingerle a fare pressione sulla Prussia per condizioni meno dure, minacciando altrimenti un’ondata rivoluzionaria guidata da Garibaldi stesso. Questi giochi di potere dimostrarono a questi giovani tutta l’insufficienza sia della prospettiva mazziniana che di quella garibaldina.

Sarà poi lo scoppio della Comune a far sì che le posizioni si radicalizzino ancora di più. Di fronte alla Comune di Parigi Mazzini prende subito una posizione negativa per tre ragioni. Innanzitutto perché crede che la Comune sia un prodotto dell’agitazione dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori: è dimostrato storicamente che l’Internazionale non ha avuto quasi nulla a che fare con la Comune direttamente, tuttavia Mazzini è preoccupato di mantenere il controllo sulle associazioni operaie italiane ispirate soprattutto dai suoi seguaci. La seconda ragione di ostilità di Mazzini verso la Comune è rappresentata dalla necessità di difendere comunque una Repubblica: la Francia è una repubblica, e la repubblica di Gambetta e di Thiers sarebbe ovviamente indebolita dal movimento della Comune. Mazzini, da vecchio repubblicano ma anche da politicante europeo, perché Mazzini è al centro di una rete di legami con le forze democratiche e repubblicane negli altri paesi, sa benissimo che anche la repubblica clericale e reazionaria francese è vista con ostilità in un’Europa dominata dalle monarchie e dagli imperi. L’impero francese è caduto, ma si è costituito subito quello tedesco, a cui si aggiungono quello austro-ungarico, quello ottomano, quello russo e quello britannico. In quegli anni, oltre alla Francia, solo la Svizzera è una repubblica. Mazzini ha paura che la Comune faccia cadere la repubblica, provocando una reazione come quella successiva ai moti del 1848, che in Francia portò alla presa del potere da parte di Luigi Bonaparte. La terza ragione di ostilità alla Comune è che Mazzini non vuole perdere l’appoggio delle componenti borghesi italiane che finanziano la sua azione, componenti critiche verso la monarchia e che vedono nel vecchio capo repubblicano un’alternativa alla nuova oppressione da parte di Casa Savoia e al regime oligarchico a cui aveva dato vita; è bene ricordare a questo proposito che nei primi anni di vita dello stato unitario italiano solo poche migliaia di persone godevano del diritto di voto.

Questi tre motivi spingono Mazzini ad una violenta campagna contro la Comune e l’Internazionale; è a questa campagna che risponde Michele Bakunin, che ha un piccolo nucleo di seguaci in Italia, influenti soprattutto all’interno della prima sezione italiana dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori, quella di Napoli. Le sole forze di Bakunin non sarebbero state in grado di sconfiggere la manovra di Mazzini. Bisogna tener conto che da una parte le condizioni oggettive erano ormai mature perché il movimento sociale nel suo complesso andasse oltre l’interclassismo e lo spiritualismo di Mazzini; dall’altra esiste una piccola tendenza che si oppone all’influenza borghese nelle organizzazioni operaie. La chiave di volta sarà, nell’autunno del 1871, la presa di posizione di Garibaldi, che si schiererà a favore sia dell’Internazionale che della Comune di Parigi, anche se in modo molto ambiguo. Il generale era convinto che l’Internazionale fosse poco più di un’associazione di resistenza, anche se nei suoi “Considerando” era espresso chiaramente l’obiettivo dell’abolizione della proprietà privata che avrebbe portato all’emancipazione della classe operaia. Garibaldi inoltre era convinto che anche la Comune fosse poco di più di una iniziativa repubblicana.

Garibaldi quindi ruppe con Mazzini su questi temi e si portò dietro quella componente del Partito d’Azione più popolare, legata a settori artigiani e rivoluzionari. Questo portò ad uno spostamento del baricentro del nascente movimento operaio verso le regioni settentrionali dell’Italia, basti considerare che fino al 1871 sezioni dell’Internazionale esistevano a Napoli, a Palermo, a Sciacca, a Girgenti, mentre nell’Italia settentrionale esisteva solo una sezione, mentre quelle di Torino e di Milano erano in costituzione; all’inizio del 1872 la situazione cambia e sezioni dell’internazionale si costituiscono in tutto il centro Italia e nel Nord. In particolare, a Bologna si costituisce il Fascio Operaio, che avrà un ruolo centrale nella costituzione della Federazione Italiana dell’Associazione Internazionale dei lavoratori (Rimini, 4-6 agosto 1872).

Nel periodo intercorrente tra la rottura fra Mazzini e Garibaldi e la conferenza di Rimini l’episodio più significativo è il congresso operaio di Roma. Il congresso fu voluto da Mazzini per rafforzare il proprio controllo sulle associazioni operaie e sancirà la rottura con gli internazionalisti. I delegati, Carlo Cafiero per Napoli e Bernardo Tucci per Girgenti, col sostegno del delegato di Livorno, presentarono al Congresso un testo basato sulla circolare di Bakunin. I mazziniani non riuscirono ad impedire che il testo venisse messo ai voti, ma prima riuscirono a far sì che la maggioranza del Congresso votasse contro e successivamente espulsero i delegati che avevano votato a favore. La vittoria dei mazziniani tuttavia fu una vittoria di Pirro, perché dopo pochi mesi la Fratellanza operaia mazziniana si sgretolerà e gran parte dei suoi membri entrerà nell’Internazionale. Il Congresso di Roma non segna solo la presa di coscienza dell’inconciliabilità fra le posizioni mazziniane e quelle internazionaliste, segna soprattutto, fra gli internazionalisti, la coscienza di essere divenuti una forza politica capace di porsi il problema di orientare un vasto movimento di massa come quello operaio, coscienza che porterà nell’estate successiva alla costituzione della Federazione italiana dell’Internazionale.

Tiziano Antonelli

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